Ad una settimana dal termine dell’Adventure Game “Monte Bianco” pubblichiamo questa analisi pubblicata dal giornalista-concorrente al programma di Rai Due Filippo Facci sulla sua pagina Facebook
“Ci sono tre modi di scalare il Monte Bianco: essere dei buoni alpinisti, aver partecipato con successo alla trasmissione «Monte Bianco» (dopo un certo allenamento e dopo essersi fatti un mazzo così) e il terzo modo è appoggiarsi all’altissima montagna di cazzate che sono state scritte sulla trasmissione, forse l’unica montagna che potrebbe superare i mitici 4.810 metri. Va da sè che il giudizio entusiastico dello scrivente non sarà giudicato obiettivo: ha (ho) ho partecipato a «Monte Bianco» peraltro con buoni risultati. Ma la cosa forse si potrebbe leggere anche al contrario: il giudizio entusiastico dello scrivente verso un progetto sicuramente mai visto, sin da subito, è stato ciò l’ha spinto a parteciparvi indipendentemente dai risultati. «Monte Bianco» è stato un prodotto assolutamente nuovo, di qualità financo eccessiva anche perché trasmesso in prima serata: e forse non è un caso che Paesi di tradizione televisiva piuttosto sobria (tutti nel Nord Europa) per la prima volta stiano acquistando il format italiano di questo reality, anche se non è proprio un reality bensì un cosiddetto «adventure game».
Riassunto per chi non capisse di che cosa stiamo parlando: nelle scorse cinque settimane Raidue ha mandato in onda «Monte Bianco», programma girato nel luglio scorso tra le montagne della Val d’Aosta con la partecipazione di personaggi più e meno famosi prestati all’alpinismo. In pratica era una gara di singoli ciascuno dei quali vincolati giorno e notte a una guida alpina. Una competizione darwiniana di prevalente resistenza fisica (inutile negarlo) in cui si è vissuti per un mese in gelidi campi base senza elettricità, senza telefoni, senza un vero tetto sulla testa, addirittura senza orologio e senza acqua corrente che non fosse un torrente a quattro gradi. In pratica una gara a eliminazione con prove anche durissime che per premio finale aveva la salita del Monte Bianco: ciò che solamente interessava allo scrivente (obiettivo raggiunto) e ciò per ottenere il quale – ora posso dirlo – forse avrei persino pagato, altroché: da tutta la vita, da escursionista velleitario, sognavo di poter apprendere ciò che una durissima full-immersion mi ha insegnato in un mese. Dopodiché, ben prima che il programma cominciasse, sono piovute critiche semplicemente immotivate (benché previste e prevedibili) la cui morale pareva sempre quella: si straparla di tv di qualità, ma poi, appena si osa, ci si lamenta perché non è tv spazzatura.
«Monte Bianco», prodotto da Magnolia, è stato trasmesso la settimana successiva al termine di «Pechino Express», pure prodotto da Magnolia: e questo, per cominciare, ha spinto a paragoni senza senso. Il turismo scanzonato di «Pechino Express» non aveva nulla a che vedere con certe prove impietose sopra strapiombi e poi arrampicate, ferrate, salite su ghiaccio, sfide verticali (in pratica chi arriva prima in cima: un calvario) e insomma quella montagna che non perdona e che ti impone self control, preparazione fisica, resistenza al freddo, forza di volontà, anche intelligenza e capacità di interagire con una guida alpina per tutto il giorno: con la straordinaria prospettiva, però, di poter salire quasi alla quota di un jet, sul mitico Monte Bianco, la montagna per davvero. Va da sè che i non appassionati di montagna posso aver cambiato canale o essersi annoiati, tanto che il programma ha fatto una media del 5 e rotti per cento. Ma, anche qui, va vista di spalle: è straordinario aver incollato un milione e passa di persone davanti a un programma che di trash non ha mai avuto assolutamente nulla, anzi, ridondava nella sua ossessione pedagogica di insegnare che la montagna è bellissima ma è anche una cosa seria, serissima, sacra: non una palestra a cielo aperto.
Fa niente, una minoranza del Club Alpino Italiano ha subito bollato il programma (senza averlo visto) come qualcosa che non rispettava l’ambiente montano, anzi, qualcosa di pericoloso, non adatto alla tv. Il sindaco di Saint Gervais les Bains (cittadina francese alle pendici del Bianco) ha querelato la Rai perché la zona «non è adatta a essere usata come campo giochi». Gli antipatizzanti della conduttrice Simona Balivo e soprattutto dell’alpinista Simone Moro (ritenuto troppo mercenario nonché colpevole, in ambiente alpinistico, di essere ancora vivo) si sono scatenati. Come se potesse trattarsi de «La montagna dei famosi», un festival della frivolezza con gente che anziché in spiaggia si sdraiasse in montagna. Eppure Simone Moro l’aveva anche detto a Libero: «Vi abbiamo insegnato la fiducia nella cordata con la guida alpina, ogni mossa era condizionata dal senso critico di chi mostrava la montagna senza infingimenti, vi ho visti vivere momenti di paura autentica, con l’affanno e la fatica vera, non una fiction, non siamo andati lassù a giocare a pallone. Sono sicuro che coloro che guarderanno senza prevenzione, alla fine, mi daranno ragione: il Cai noterà che probabilmente aumenteranno le iscrizioni ai corsi di roccia e la passione per la montagna».
«Monte Bianco» è stato quasi un reality senza parole, solo immagini e tensione, agonismo, adrenalina, un film ad alta tensione senza le prurigini che la critica dice sempre di detestare: ma senza le quali – fa eccezione Aldo Grasso del Corriere, che ha ammirato il coraggio di Rai Due – la stessa critica pare soffrire per becero riflesso condizionato. Ma soprattutto «Monte Bianco» (parentesi personale) ha segnato la mia vita perché da allora non riesco più a staccarmi dalle montagne, altro che programma diseducativo: lo giudico un esperimento di qualità televisiva straordinaria e proprio per quest’ultima ragione, paradossalmente, potrebbero replicarlo o archiviarlo per sempre. Abbiamo le montagne più belle del mondo, non le tv”.
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