Intervista a Matteo Della Bordella: “L’alpinismo non è morto. Si è adattato al mondo di oggi”
Matteo Della Bordella, classe 1984, Ragno di Lecco, ha vinto la scorsa settimana il premio “Grignetta d’oro”. A nove anni dalla sua ultima assegnazione (i precedenti vincitori: 1997 Manlio Motto; 1999 Cristoph Hainz; 2001 Bubu Bole; 2003 Simone Pedeferri; 2006 Rolando Larcher e Rossano Libera ) il prestigioso premio alpinistico è andato al 30enne varesino dei Maglioni Rossi per l’attività svolta nel biennio 2013-2014 e per la “visione” dimostrata col suo alpinismo. Gli altri candidati erano Hervé Barmasse, Luca Schiera, Corrado Pesce, Tamara Lunger, Francesco Salvaterra e Simon Gietl
Innanzitutto, complimenti per il premio Grignetta d’Oro. Al di là delle tue imprese, sei stato scelto per il tuo alpinismo inteso come esperienza esplorativa più ampia e non solo in verticale, come se seguissi le orme dei grandi Bonatti e Messner. E’ così?
Penso sia così. La motivazione della giuria è stata “Per il percorso intenso, progressivo, di alta qualità e difficoltà, con cui ha dimostrato di mettersi in gioco per raggiungere obiettivi sempre diversi, portando la sua ricerca non solo su quei terreni verticali, difficili, in quota, classici dell’alpinismo, ma anche affrontando elementi diversi come il Mare Artico, rendendo così il suo alpinismo un’esperienza esplorativa più ampia, matura e completa.”
Tuttavia non penso che le mie esperienze ed avventure siano paragonabili a quelle di Bonatti e Messner. Loro erano dei visionari, persone capaci di spingere al di là il limite di ciò che allora era ritenuto possibile. Ai loro tempi tutto era diverso, il mondo in questi ultimi decenni è cambiato ed oggi abbiamo aiuti tecnologici un tempo impensabili. Forse la cosa che mi accomuna a loro è la voglia di avventura, il desiderio di esplorare posti nuovi ed esplorare se stessi ed i propri limiti.
A chi dedichi il premio?
A mio padre Fabio
Il premio La Grignetta d’Oro è un premio etico oltre che sportivo, per la visione dell’alpinismo dimostrata nell’ultimo biennio. Ebbene, qual è la tua visione di montagna e quale di alpinismo?
La mia visione di alpinismo è scalare con uno stile pulito ed in arrampicata libera le più grandi pareti del mondo. Sono sempre stato affascinato dalle grandi pareti di roccia, sia nelle Alpi, che al di fuori; un fascino che aumenta quando queste pareti si trovano in luoghi remoti e difficilmente accessibili. Scalare con uno stile pulito significa non modificare l’ambiente, non lasciare tracce del proprio passaggio, preservare la natura e la roccia per chi verrà dopo di noi. Scalare in arrampicata libera significa salire le pareti in modo “fair”, utilizzando solo gli appigli e gli appoggi offerti della roccia per progredire; l’attrezzatura tecnica serve solo per sicurezza in caso di caduta, ma non per tirarsi su. Come ha fatto David Lama sul Cerro Torre, Tommy Caldwell sulla Dawn Wall oppure noi sullo Shark’s Tooth.
Alessandro Gogna ed altri parlano di te come uno dei massimi testimoni dell’alpinismo tradizionale. Dico questo perché ciclicamente in Italia, dopo le parole di Messner il quale ha affermato che i giovani non portano più avanti l’alpinismo classico (recentemente ha fatto un passo indietro dicendo che per alcuni giovani l’alpinismo non è solo arrampicata e salita ma anche cultura), viene riportata a galla la discussione sull’“Alpinismo tradizionale fallito”. Cosa ne pensi?
Non saprei, bisognerebbe definire prima il concetto di “alpinismo tradizionale” o di “alpinismo classico”. Come ho scritto prima penso sia impensabile paragonare ciò che si faceva 30, 40, 50 anni fa a ciò che si fa adesso. Semplicemente non ha senso. Sono cambiate troppe cose, è cambiato il mondo; è impossibile vivere un’avventura come quelle che ha vissuto Messner al giorno d’oggi. Ma è possibile vivere avventure ed esperienze fondamentalmente diverse da 40 anni fa, ma non per questo di minor valore o importanza. Quindi, posso capire l’affermazione che l’alpinismo di Messner sia in un certo senso “fallito”, ma forse questa era una cosa inevitabile. Sicuramente però l’alpinismo non è morto, è cambiato e si è adattato al mondo di oggi, ha preso diverse direzioni, e si evolverà ancora in futuro.
Restando in tema di etica, questa è una frase di Denis Urubko: “Semplicemente le montagne sono diventate il metro attraverso il quale tagliar via il superfluo dagli animi umani e permettono di vedere con maggiore chiarezza il senso di tutto”. E’ vicina alla tua visione di vita?
Direi di no. O meglio, non ho capito bene in che contesto si inserisca questa affermazione di Urubko, ma sicuramente io non vado in montagna per “vedere con maggiore chiarezza il senso di tutto”. Vado in montagna perché il mio istinto mi dice di farlo, sono mosso dalla passione e della voglia di vedere, di esplorare e di rincorrere i miei sogni, ma non penso che andare in montagna elevi una persona a una dimensione superiore che permetta di vedere o vivere qualcosa che gli altri non vedono. Il mio approccio è molto più pragmatico: penso che ciò che provo io andando in montagna chiunque altro lo possa provare in altri luoghi del mondo o facendo altre cose nella vita.
Ci dai qualche anticipazione su tue prossime avventure?
A metà agosto partirò per l’India insieme a Luca Schiera e Matteo De Zaiacomo; andremo a scalare nel gruppo dei Bhagirathi.
I Ragni hanno avviato una raccolta fondi per la popolazione del Nepal colpita dal terribile terremoto dello scorso 25 aprile…
Una gran bella iniziativa. Il Nepal, le sue montagne e la sua gente hanno dato molto in passato al gruppo Ragni, permettendo ai suoi membri di scalare alcune delle cime più belle della terra. Ora che questa terra e questo popolo si trovano in difficoltà è giusto contribuire ed essere in prima linea per aiutarli a riprendersi.
Lo sport va a braccetto con il sociale, sabato scorso sei stato testimonial di una raccolta fondi per Admo…
Devo ringraziare ADMO per avermi fatto conoscere meglio questa realtà di cui avevo solo sentito parlare. Purtroppo su questo tema c’era da parte mia e c’è ancora da parte di tante persone un po’ di ignoranza: sono onorato di essere diventato testimonial di ADMO e di avere la possibilità di portate questo messaggio in giro per il mondo. Diventare donatore di midollo osseo è facile, non costa nulla, non presenta rischi e può salvare la vita di una persona. E’ bello ogni tanto anche per noi “conquistatori dell’inutile” poter fare qualcosa per gli altri. Se pensate che un’ora del vostro tempo valga la vita di una persona informatevi anche voi nel centro ADMO più vicino a casa vostra.