Un sentiero sulle Dolomiti Ampezzane (dal rifugio Giussani aggirando la Tofana di Rozes) che ormai nessuno più si azzarda ad affrontare perché non più manutentato, pericoloso ed esposto e bersagliato da frane e valanghe. Qui si possono fare “scoperte” inaspettate…
di ISABELLA CORTI
Ci svegliamo all’alba, io Renato e Simon prendiamo i nostri zaini e una vecchia guida del Berti appartenuta al papà guida alpina di Simon. Oggi finalmente partiamo per ripercorrere un sentiero che ormai nessuno più si azzarda ad affrontare, in quanto non più manutentato, pericoloso, esposto, sparito dalle cartine, bersagliato da frane e valanghe.
La Cengia Paolina è un sentiero mozzafiato nel cuore del Gruppo delle Tofane, dolomiti ampezzane, che un tempo si raggiungeva partendo dal rifugio Giussani aggirando la Tofana di Rozes.
L’avevamo guardata e studiata per mesi, ogni volta che io e Renato percorrevamo la Val Travenanzes verso Ponte Alto e Fiames. E’ una cengia così perfetta da sembrare un balcone sospeso a più di 600 metri a strapiombo sulla valle, scavata apposta dal tempo per sfidare i sognatori di rocce.
Arrivati al Passo Falzarego ci dirigiamo a prendere la prima cabina che sale alla Cima Lagazuoi. Il sole brilla in un cielo terso e l’aria pungente ci incoraggia a partire alla svelta, attraversiamo il paesaggio lunare che ci porta alla Scala del Menighel che in breve ci permette di raggiungere, raggirando la Tofana di Rozes, il ghiaione di scolo impervio appena sotto l’attacco della cengia.
Iniziamo a salire nel silenzio totale rotto solo dai nostri passi, sulle pietre di un bianco dolomia abbagliante. Renato e Simon salgono veloci mentre io rimango un poco indietro, come sempre mi faccio distrarre dai colori, dai profumi che colpiscono i miei sensi all’erta, i miei passi sono leggeri, ma il ghiaione è molto ripido e così ad ogni nuovo passo scivolo, come un piccolo di camoscio che deve muovere incerto ma svelto i suoi primi passi. Dall’alto mi incoraggiano, il percorso sarà lungo e faticoso e soprattutto rimane costante l’incognita sulla sua effettiva percorribilità.
Ormai nel mezzo di un mare di calcare bianchissimo la mia curiosità si posa su un oggetto a me sconosciuto, strizzo gli occhi abbagliati dal sole, no non è il solito incredibile e tenace fiore di alta montagna, ma un caricatore austriaco con proiettili inesplosi. Mi blocco cercando di mantenere l’equilibrio in quel punto così scosceso e mi rendo conto che ero salita sino a quel punto tenendo lo sguardo basso, attenta a dove mettere i piedi, non mi ero resa nemmeno conto di ciò che muto, rimaneva incastrato tra le rocce: proiettili, bombe a mano, granate, filo spinato, scatolette di cibo e frammenti di ogni genere arrugginiti. Mi siedo senza fiato, non tanto per la fatica, alla quale cuore e polmoni si erano adattati in fretta, ma piuttosto per ciò che là sotto al ghiaione trasudava al sole: mille voci e un rumore che sfonda l’anima.
Prendo in mano il caricatore, mi brucia la pelle della mano ma lo stringo forte tra le dita: “a chi era appartenuto, a quale mano armata?”, “forse un ragazzo come me”. Questi i miei pensieri. Questo silenzio ora, sottovoce mi parla all’orecchio interiore mentre la montagna si scolla appena e tutto ricopre.
Metto il caricatore in tasca e raggiungo i miei compagni. Camminiamo tra pareti che mutano colore ad ogni passo, saliamo forcelle, ci perdiamo, torniamo sui nostri passi e ritroviamo un traccia di sentiero con i bolli segnaletici d’un rosso ormai smunto; attraversiamo altopiani che sembrano immutabili e in fine sfinita, seguendo gli altri, mi lascio scivolare giù senza resistenza, per il canalone di Ra Ola verso Ponte Alto.
Mentre facciamo ritorno al rifugio, segnati dall’emozione appena condivisa insieme, tra boschi di larice e profumo di cirmolo, metto una mano in tasca e passo le dita sul metallo ossidato dal tempo e penso a quel soldato e ai suoi amici italiani e austriaci insieme, a quando insieme bevevano forse un boccale di birra e poi un giorno La Grande Guerra ha messo loro una divisa pesante e li ha armati uno contro l’altro.
totale disappunto per la cultura del souvenir di guerra da portarsi a casa!!!….Il Cengia Paolina mi sembra meno “eroico” di quanto qualcuno vuol farlo passare (e non mi riferisco all’autrice dell’articolo sopra); sicuramente non è alla portata di tutti, ma con una certa esperienza e un po’ di fiato è a mio avviso quanto di meglio ci sia in zona……
Non sono assolutamente d’accordo con Renato, quello che ha trovato non è un “souvenir” ma è molti di più come mi sempre abbia esposto Isabella. La cengia io l’Ho fatta partendo da Piè Tofana, raggiungendo Ra Valles e poi dal Valon de Ra Ola e ritorno Sentiero Astaldi e nuovo sentiero dei Camosci. Non è assolutamente per tutti, tanto che non si trova più segnata. Se provate a parlare con il gestore del Rifugio Giussani, la consiglia con una guida che la conosca bene. E’ facile perdersi. Resta il fatto che è sicuramente bella e con panorami mozzafiato………..
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ma……….. c’era proprio bisogno di portarsi a casa il caricatore ???
totale disappunto per la cultura del souvenir di guerra da portarsi a casa!!!….Il Cengia Paolina mi sembra meno “eroico” di quanto qualcuno vuol farlo passare (e non mi riferisco all’autrice dell’articolo sopra); sicuramente non è alla portata di tutti, ma con una certa esperienza e un po’ di fiato è a mio avviso quanto di meglio ci sia in zona……
Non sono assolutamente d’accordo con Renato, quello che ha trovato non è un “souvenir” ma è molti di più come mi sempre abbia esposto Isabella. La cengia io l’Ho fatta partendo da Piè Tofana, raggiungendo Ra Valles e poi dal Valon de Ra Ola e ritorno Sentiero Astaldi e nuovo sentiero dei Camosci. Non è assolutamente per tutti, tanto che non si trova più segnata. Se provate a parlare con il gestore del Rifugio Giussani, la consiglia con una guida che la conosca bene. E’ facile perdersi. Resta il fatto che è sicuramente bella e con panorami mozzafiato………..