Spettacolarizzazione e antropizzazione i mali della montagna
30 anni e non sentirli! Mountain Wilderness infatti, a distanza di tre decenni dalla fondazione, è ancora capace di alimentare dibattiti e discussioni animate fra gli alpinisti, gli studiosi e gli esperti di montagna.
“Non ci aspettavamo una presenza così numerosa ed appassionata – hanno commentato soddisfatti gli organizzatori del Cai Biella – segno che c’è ancora voglia di confrontarsi su tematiche sempre attuali, che offrono nuovi spunti di discussione”.
Tante e diverse le istanze emerse durante il convegno “Ripensare alla montagna”, di sabato 11 novembre, al quale ha preso paerte, tra gli altri, il Presidente generale del CAI Vincenzo Torti: accanto a chi riconosce la necessità di dare alla montagna la possibilità di essere motore di sviluppo e di economia sostenibile, c’è invece chi non è disposto a scendere a compromessi e rivendica l’attualità delle Tesi di Biella scritte nel 1987. “Il desiderio – teoricamente comprensibile – di convertire il maggior numero possibile di persone alla pratica della montagna, facilitandone l’avvicinamento, ha innescato spesso processi di deleteria antropizzazione. […] Ma questa politica contiene gravi errori di valutazione. Essa infatti trascura i valori di wilderness – e della solitudine che la caratterizza – come cardini irrinunciabili della qualità dell’alpinismo. Noi crediamo che la progettazione e la capienza dei rifugi non debbano inseguire la richiesta dei potenziali frequentatori, ma vadano misurate sulla quantità di presenze che gli ambienti naturali, resi più facilmente fruibili grazie a tali ricoveri, possono sopportare senza perdere di significato”.
Tutti i partecipanti si sono dimostrati d’accordo nell’individuare nella spettacolarizzazione dell’alpinismo e nell’eccessiva antropizzazione delle aree montane i due mali che affliggono le terre alte pur riconoscendo che molto è stato fatto in questi lunghi decenni di attività: c’è stato un netto rallentamento del degrado e un aumento sensibile della consapevolezza da parte dei fruitori della montagna. Ma non è ancora abbastanza.
Con i cambiamenti climatici, che modificano gli ecosistemi in quota, e l’evoluzione del profilo e delle necessità del turista che frequenta la montagna, si rende necessaria una pianificazione nuova, lungimirante, in grado di pensare progetti sostenibili anche a lunghissimo termine, capaci di innescare processi economici virtuosi.
Altrettanto necessaria una migliore gestione dei fondi pubblici, spesso distribuiti con poca oculatezza e senza regolari controlli, una sensibilizzazione culturale e un miglior sfruttamento delle terre alte: l’uomo è una presenza prepotente, in grado di imporre mutamenti repentini e non necessari al paesaggio, che rischia di compromettere la territorialità autentica e rovinare per sempre il patrimonio montano, trasformandolo in un non luogo. Quello è infatti il punto di non ritorno, che segna un definitivo impoverimento -economico e sociale- di un intero territorio.
Centrali per tutti i partecipanti anche i concetti di responsabilità, di vincoli e di libertà: la montagna è di chi la protegge, di chi sa godere della libertà che offre, ma che ne rispetta i forti vincoli posti da un ambiente fragile e sottoposto a grandi rischi.
E in ultimo la montagna va rispettata: le controverse manifestazioni e attività sportive che si svolgono in quota devono essere svolte nel pieno rispetto di un’etica che ponga al centro la montagna e i suoi abitanti, cioè gli animali selvatici, che necessitano di protezione e tutela costanti.
Fra le discussioni emerse, anche quella – molto contemporanea – relativa all’utilizzo della tecnologia che, se da un lato consente a chi pratica la montagna di muoversi più in sicurezza, dall’altro fa sì che le persone siano disposte ad assumersi rischi maggiori di quanti ne avrebbero mai corsi senza l’ausilio di apparecchiature all’avanguardia: la tecnologia non può e non deve sopperire alle proprie mancanze o alla scarsa preparazione, ma deve essere solo uno strumento utile, da usare con consapevolezza.
E, a chiusura del convegno, non è mancata un’accorata rivendicazione da parte di Carlo Alberto Pinelli, regista, scrittore, alpinista e ambientalista, nonché uno dei padri fondatori di Mountain Wilderness, secondo cui: “la montagna è il regno dell’autenticità, della libertà, della possibilità di scelta: solo la montagna offre una visione veramente prospettica sulla nostra vita. Dobbiamo imparare a vivere la montagna per com’è: cioè un territorio, certo, ma anche un insieme di incontri, di rapporti umani, di fiori, di animali”.
Pinelli ha anche lanciato un monito: senza ambiente selvaggio non c’è libertà; la wilderness non è uno spazio di gioco che, per definizione, è basato su precise regole, ma è uno spazio di avventura vera, l’ultimo che ci è rimasto, e che va difeso strenuamente.
Un ultimo momento del convegno è stato dedicato all’incontro, moderato dal giornalista Andrea Formagnana, fra gli scrittori Paolo Cognetti, premiato con lo Strega per “Le otto montagne”, e Matteo Righetto (Premio Cortina 2016 e Premio “Ghiande” Festival dell’Ambiente di Torino 2017), autore di “La pelle dell’orso” e “L’anima della frontiera”, che si sono interrogati sul tema della frontiera, dei confini e della Wilderness dei popoli.
«Ora l’obbiettivo che si pone il Cai Biella – ha detto a conclusione del convegno il presidente della sezione Eugenio Zamperone – è farsi promotore di un’alleanza tra tutte le associazioni e gli appassionati di montagna per raccogliere le sfide emerse nella giornata».
Intanto il Cai Biella è ancora più saldo nella convinzione di proporre una road map condivisa per portare Biella a essere riconosciuta come Città Alpina dell’Anno nel 2022,quando la sezione festeggerà i suoi 150 anni di vita.
fonte: CAI Biella/Lo Scarpone