Vacanze (R)omane, nuova via per i Ragni Della Bordella e Pedeferri
Simone Pedeferri sul tiro chiave della via (Ph: Arianna Colliard / Archivio Ragni della Grignetta)
Niente altezze himalayane o tempeste patagoniche questa volta. La spedizione che nelle scorse settimane ha visto impegnati il presidente dei Ragni Matteo Della Bordella, il “globe trotter” Simone Pedeferri, Arianna Colliard e Stefano Caligiore, ha avuto come destinazione le assolate pareti dell’Oman, nel sud della Penisola Arabica: un’area ancora poco conosciuta ed esplorata dagli arrampicatori, ma che sembra riservare interessanti opportunità.
Questa è la seconda spedizione che i nostri due Ragni conducono assieme, dopo quella in Groenlandia di nove anni fa. Nel report che segue Matteo racconta la genesi di questa esperienza e si sofferma a riflettere su cosa è cambiato e maturato in questi nove anni.
Vacanze (R)omane
di Matteo Della Bordella
Questo viaggio in Oman è stato un po’ come ricevere un regalo inaspettato: è arrivato all’ultimo momento e non avevo alcuna idea di cosa aspettarmi quanto avrei scartato il pacco.
In realtà erano anni che sognavo ad occhi aperti di scalare sui famosi Tepui Venezuelani e, finalmente, questa primavera sembrava essersi presentata l’occasione giusta per realizzare questo sogno: c’era un team affiatato e motivato, c’erano belle pareti vergini, c’era un gruppo di locals affidabili e c’era un progetto che andava aldilà della mera parte alpinistica, coinvolgendo anche la popolazione locale ed il territorio (il “Tepui Project”).
Questo progetto sembrava procedere a gonfie vele verso la sua fase finale, ovvero quella della sua concretizzazione, fino a quando ci siamo seduti tutti attorno ad un tavolo e, dopo aver analizzato a fondo la situazione politica ed economica del Venezuela, di comune accordo abbiamo deciso di rinunciare, o meglio, di posticipare il nostro viaggio a tempi migliori e ad una situazione del Paese più stabile.
La relazione dell’itinerario (Ph: Arianna Colliard / Archivio Ragni della Grignetta)
Ci siamo trovati in una condizione diversa dal solito, nella quale i rischi del viaggio non erano legati alla parte alpinistica, ma a fattori di natura diversa ed erano rischi che, dopo aver valutato e discusso, non eravamo disposti ad accettare.
Siamo rimasti tutti un po’ spaesati dalla delusione di questo piccolo sogno, che sembrava potessimo già toccare con mano e invece in un attimo è sfumato.
Dalle ceneri di questo progetto, Simone Pedeferri è stato l’unico ad avere un piano “b” concreto e se ne è uscito con la frase: “Io pensavo di andare in Oman, qualcuno vuole venire?”.
Forse dovevo digerire ancora il fatto che mi vedevo già a scalare sulla roccia rossa dei Tepui e non presi nemmeno in considerazione l’idea di andare in un posto del quale avevo sentito poco parlare e (probabilmente per ignoranza mia) non associavo a grandi immagini di scalata o pareti. Ma poi, dopo qualche settimana di riflessione, ci ripensai ed in fondo mi domandai: “Oman, perché no?” Solitamente mi piace pianificare abbastanza nel dettaglio i miei viaggi e le mie spedizioni, ma questa volta sarà diverso: pochi piani e tanto istinto e improvvisazione… questo viaggio in Oman, non voglio che sia una spedizione con un vero obiettivo, ma voglio che sia una vacanza, sarà l’istinto a guidarci verso le pareti e verso l’avventura.
Così ci ritroviamo in quattro: oltre a me e Simone Pedeferri, ci sono Stefano Caligiore e la mia compagna Arianna Colliard, a girare alla ricerca di pareti per le polverose e dissestate strade dell’Oman, con noi ci sono 100 spit, un trapano e tanta voglia di scalare, divertirsi e conoscere…
Aldilà della scalata vera e propria, però, ci sono altre due cose di questo viaggio che ci tengo a raccontare.
Senza dubbio il momento che più mi è rimasto impresso è stato l’arrivo nel piccolo villaggio di “Al Kumeira”: una strada sterrata lunga 12 km che si inerpica in mezzo alle aride montagne. Una distesa di pietre senza fine, il sole che fa percepire tutto il suo calore, due case, quattro persone e una ventina di capre.
Il team della spedizione. Da sinistra: Arianna Colliard, Stefano Caligore, Matteo Della Bordella e Simone Pedeferri (Ph: Arianna Colliard / Archivio Ragni della Grignetta)
Sembra di essere atterrati in un posto completamente fuori dal mondo, lontano anni luce dai lussuosi Hotel e centri commerciali della capitale Muscat.
Un vecchio pastore, dall’età indefinita, ci accoglie, salutandoci in modo caloroso, con gesti ed esclamazioni nella sua lingua locale. Si dirige verso casa sua e, poco dopo, torna da noi per darci un sacchetto gigante di datteri.
Con un po’ in imbarazzo per il regalo ricevuto, gli offriamo dei Twix e lui ci ricambia donandoci dei biscotti e facendoci capire, a gesti, che potevamo campeggiare nel suo terreno e rimanerci quanto volevamo.
Poi, una mattina di qualche giorno dopo, arriva traballante verso di noi, all’alba dopo essersi occupato delle sue capre, portandoci un vassoio carico di thè, biscotti e pane.
Sono scene che non è facile rendere attraverso le parole, ma che ti colpiscono nel profondo.
Com’è possibile che questa gente, che ai nostri occhi non ha nulla, possa condividere quel poco che ha con dei perfetti estranei e sconosciuti, che non parlano nemmeno la loro lingua, arrivati da chissà dove con una super Jeep nuova che sembra un’astronave? E com’è possibile che per noi (me compreso) spesso sia così difficile condividere le nostre ricchezze o, comunque, ciò che abbiamo con chi è meno fortunato di noi?
Questa scena la dice lunga sulla nostra società e sul mondo in cui viviamo. Forse è proprio vero che“le cose che possiedi alla fine ti possiedono”.
Sono stati pochi, ma significativi momenti, mi ha fatto aprire gli occhi su molte cose del mondo in cui viviamo che vanno oltre la scalata e la montagna e tutte le diavolerie che impegnano la nostra mente e le nostre vite e che non ci fanno vedere aldilà del nostro naso.
Il secondo momento, o meglio esperienza che più voglio raccontare di questa vacanza è stata quella di scalare nuovamente, a distanza di nove anni dal nostro primo ed unico viaggio insieme a Simone Pedeferri.
Nove anni fa, in Groenlandia, io ero poco più che un ragazzino con tanta motivazione ed irruenza, lui era già uno scalatore maturo, con un suo stile di vita e di scalata e con un livello incedibile.
Non so se glielo ho mai detto direttamente, ma quella spedizione fu per me un’esperienza unica, di confronto e di crescita alpinistica e personale, e sono realmente grato a Simone per tutto ciò che mi ha trasmesso in quel viaggio.
Negli anni penso di essere maturato un po’ pure io, ho preso la mia strada e mi sono creato un mio stile di vita e di scalata e, senza dubbio, per molti anni per me Simone è stato un modello a cui ispirarsi.
Confrontarsi e legarsi insieme a lui dopo tanto tempo è stato sicuramente, oltre che divertente, interessante. Penso che in parete fossimo molto più in sintonia di nove anni fa e, sicuramente, più in accordo sulle decisioni da prendere, tuttavia da Simone penso di avere ancora parecchio da imparare, soprattutto nella chiodatura dei tiri ?
La cosa bella per me è stata vedere ancora negli occhi e nel fisico di Simone quell’enorme passione, rimasta immutata: quella per la scalata intesa non solo come prestazione sportiva, ma anche come condivisione di un’avventura con i propri compagni, come ricerca di esperienze nuove e diverse e come sviluppo di questa disciplina in modo altruistico, attraverso la costante chiodatura di nuovi itinerari. Insomma,
Simone Pedeferri a distanza di nove anni, nel suo silenzio mediatico e nelle sue scelte, resta per me una persona di incredibile ispirazione, per la passione genuina e cristallina verso l’arrampicata e per il suo modo di vivere questa passione. Sono veramente contento di aver condiviso questo viaggio con lui.
Ok. Dopo avervi annoiato con una pagina e mezza di belle parole e riflessioni, forse dovrei parlare un po’ anche di arrampicata e della via che abbiamo aperto?
Matteo Della Bordella durante l’apertura della via (Ph: Arianna Colliard / Archivio Ragni della Grignetta)
Certamente sì perché si tratta di una via che lo merita. Nell’oceano di pareti di roccia a disposizione, avevamo solamente l’imbarazzo della scelta in merito a dove provare ad aprire una via nuova. L’idea comune era quella di aprire una bella ed impegnativa via di arrampicata, sullo stile di quelle del Wenden, prediligendo una ricerca dei tratti di roccia più compatti ed attraenti per la scalata libera piuttosto che il fatto di seguire linee di debolezza della parete, salibili magari con uno stile più pulito, ma a scapito di difficoltà, esposizione ed arrampicata. Non perché uno stile sia migliore dell’altro, ma semplicemente per scelta sulla tipologia di esperienza che desideravamo vivere in quel momento.
Decisa la parete, ovvero la parete Nord del Jabel Kawr, posta poco sopra il piccolo villaggio di Al Kumeira, ci siamo messi subito all’opera e ci siamo fatti strada pian piano sulle placconate calcaree che ci sovrastavano scoprendo, passo dopo passo, la nostra linea di salita.
L’apertura della via ci ha impegnato per 4 giornate ed una quinta giornata ci è servita per liberarla. In queste 4 giornate c’è stato anche il battesimo di Stefano, per la prima volta ingaggiato nell’apertura di una via dal basso e per la prima volta appeso agli sky-hook per piantare uno spit.
Ne è uscita una via di 450 metri, della quale possiamo ritenerci più che soddisfatti per la qualità della scalata, la linea seguita e la chiodatura. Ognuno di noi ha potuto fare ciò che si sentiva in grado di fare seguendo il suo istinto e il suo stile di scalata, è stato un bel lavoro di squadra.
È una via che consiglierei di ripetere, ovviamente raccomandando il fatto che, nonostante gli spit, si tratti di un terreno d’avventura, che richiede esperienza nella valutazione della linea e padronanza nella gestione delle difficoltà presenti.